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Cinque anni dopo Pechino

Molte Bastiglie ancora da abbattere

A ottobre del 2000, convergerà a New York una marcia mondiale delle donne contro la povertà e la violenza.

Una delegazione incontrerà il segretario generale delle Nazioni unite, Kofi Annan (leggere a pagina 14). Le centinaia di migliaia di donne che si mobilitano in tutto il pianeta esigono una vera uguaglianza politica, denunciano una globalizzazione senza freni né controlli della quale esse sono le prime vittime,condannano le brutalità dei tempi di guerra - soprattutto gli stupri - e quelle dei tempi di pace - come l'escissione e l'infibulazione (leggere alle pagine 14 e 15).

Perché, cinque anni dopo la conferenza di Pechino sui diritti delle donne, numerose Bastiglie dell'ineguaglianza e del machismo restano ancora da abbattere.

di Agnès Callamard*

Dal 5 al 9 giugno 2000, in occasione della Sessione speciale dell'Assemblea generale delle Nazioni unite a New York, stati e organizzazioni non governative (Ong) si incontreranno con l'Onu per esaminare a che punto è l'attuazione del programma d'azione della Conferenza sulle donne di Pechino.

Quasi tutti i governi hanno presentato rapporti nei quali valutano le attività svolte su ciascuno dei tredici punti prioritari identificati a Pechino (1); numerose organizzazioni non governative hanno redatto rapporti «alternativi», con una visione più critica delle attività governative.

Dal canto suo, la Commissione sulla condizione della donna, organo ufficiale delle Nazioni Unite con sede a New York, ha preparato un documento di sintesi, riassumendo per ciascuno dei tredici temi i progressi e gli ostacoli incontrati (2), e identificando le «nuove» sfide.

L'energia creativa, e le probabili contestazioni che questo incontro dovrebbe suscitare, saranno benvenute. Certo, cinque anni dopo Pechino si sono registrati alcuni «progressi» (piuttosto che successi): ad esempio l'attuazione di misure volte ad assicurare l'uguaglianza politica e la partecipazione delle donne ai processi decisionali, o a riformare le normative discriminatorie dei codici civili o penali.

Ma parallelamente a questi progressi, peraltro disomogenei e in larga misura ancora allo stadio delle buone intenzioni, una crescente emarginazione economica colpisce la maggioranza delle donne, che non cessano di essere vittime di violenze.

In numerosi casi, il principio dell'uguaglianza civile e della parità, così come le proposte di misure positive, hanno fatto un buon tratto di strada. Mentre diversi stati hanno varato riforme giuridiche, eliminando talune misure discriminatorie dal diritto di famiglia come dal codice penale, altri hanno aperto un dibattito su questi temi (3)

Il fatto che la questione dell'uguaglianza civile e politica sia stata oggetto di una maggiore attenzione, con la conseguente attuazione di misure positive, non può di per sé destare sorpresa.

È una dinamica che riflette l'evoluzione generale, nel campo del rispetto dei diritti umani, iniziata dopo la fine della seconda guerra mondiale, e in particolare la preminenza conferita ai diritti politici e civili a discapito degli «altri», quelli economici, sociali e culturali (4).

Tuttavia questo squilibrio ha almeno consentito di ottenere, progressivamente e quasi ovunque, l'estensione del diritto di voto alle donne e il loro riconoscimento giuridico come cittadine a pieno titolo.

Peraltro, le donne (analogamente alle minoranze etniche e religiose, ad esempio) non avrebbero potuto trarre gli stessi benefici da quest'evoluzione senza il verificarsi di altri sviluppi, in particolare la presa in considerazione delle differenze nella definizione dei diritti politici e civili e nella loro concreta attuazione.

Nel corso di questa seconda tappa, che deve molto al movimento dei diritti civili degli Stati uniti e a quello degli intoccabili in India, i movimenti sociali (e anche alcuni governi) si sono concentrati sull'impatto del «genere» o dell'appartenenza etnica sulla capacità delle persone di beneficiare in maniera effettiva dei propri diritti e di partecipare alla vita democratica.

Come spiega il filosofo Jürgen Habermas, «i diritti possono conferire alle donne il potere di costruirsi la propria vita soltanto a condizione che comportino una partecipazione paritaria alla propria autodeterminazione sul piano civile. Le donne sono infatti le sole a poter decidere degli aspetti pertinenti che definiscono l'uguaglianza o la disuguaglianza in ambiti specifici (5)».

In quest'ottica, i principi dell'uguaglianza politica e civile si fondano sia sull'idea di una partecipazione senza discriminazioni che su quella dell'uguaglianza o della parità nella rappresentanza.

Parallelamente, o di conseguenza, l'uguaglianza in questo campo non è più stata considerata come risultato meccanico o funzione dell'uguaglianza economica, bensì come una sede pressoché autonoma di rivendicazioni, e una necessità in sé (6).

A questo mutato atteggiamento da parte di numerose organizzazioni di donne è venuto ad aggiungersi un calcolo pragmatico, poiché le possibilità di riforma in campo politico e giuridico sono maggiori che in quello economico. Ma anche in questo settore, il bilancio globale è ben lontano dall'essere positivo. Come conferma la lettura dei rapporti di Amnesty International, si continuano a violare i diritti civili e politici della persona, e in maniera specifica quelli delle donne.

D'altra parte, nonostante l'importanza attribuita al funzioidnto democratico e all'uguaglianza politica, e malgrado il costante lavoro di gruppi di donne impegnate ad ottenere che quest'uguaglianza si coniughi anche al femminile, la partecipazione e la rappresentanza delle donne in seno alle istanze del potere rimane esigua.

Se la percentuale delle deputate è del 39% nei parlamenti dei paesi nordici, raggiunge appena il 14% nell'Europa dell'Ocse (escludendo i paesi nordici), il 15% nelle Americhe e in Asia, l'11% in Africa e il 4% in Medioriente (7).

Ideologia patriarcale Le ragioni di questo stato di cose variano, ovviamente, da un contesto all'altro. Il rapporto di sintesi delle Nazioni unite e numerosi rapporti dei governi pongono l'accento sul persistere di un'ideologia patriarcale, che caratterizza tra l'altro la divisione del lavoro domestico: l'uguaglianza sarebbe irrealizzabile perché le donne mettono al mondo e allevano i figli, e perché provvedono a cucinare... C'è da chiedersi se per caso i paesi scandinavi siano sull'orlo di un'estinzione demografica... E ci si domanda anche se nella maggioranza dei paesi esista una reale volontà politica di superare questi ostacoli per garantire il principio di uguaglianza politica e civile, nelle normative come nei fatti (8).

Tra tanti altri esempi, possiamo citare quello del governo americano, che non ha ancora ratificato la Convenzione contro ogni forma di discriminazione sessista, o quello del parlamento del Kuwait che ha rifiutato di estendere il diritto di voto alle donne.

Allo stesso modo, il principio di uguaglianza è stato ignorato in Giordania, dove il parlamento ha ribadito per la seconda volta il suo voto contrario a un emendamento dell'articolo 340 del codice penale che prevede uno sconto di pena nei casi di omicidi definiti «delitti d'onore».

E in Afghanistan ogni diritto umano delle donne è calpestato. Parallelamente, per quanto riguarda gli aspetti economici e sociali il rapporto delle Nazioni unite ha constatato che la globalizzazione (intesa come deregulation e liberalizzazione dei mercati finanziari e del lavoro) ha accentuato non solo le disuguaglianze su scala nazionale e internazionale, ma anche quelle legate al genere: «Le disparità crescenti delle situazioni economiche tra i vari paesi e al loro interno, aggravate da una crescente dipendenza economica degli stati da fattori esterni, riducono la capacità degli stati di assicurare una protezione sociale e di realizzare il Programma d'azione (...) La crescente femminilizzazione della povertà minaccia di vanificare gli sforzi tesi ad assicurare una maggiore uguaglianza tra i sessi (9)».

La globalizzazione ha avuto un impatto negativo sulle funzioni riproduttive delle donne, dovuto in larga misura alla contrazione della spesa sanitaria nei bilanci nazionali e/o alla privatizzazione dell'assistenza medica. E in diverse realtà, particolarmente nei settori che impiegano manodopera femminile, ha anche portato a una diminuzione dei salari e della tutela sociale (10).

Secondo le cifre della Confederazione internazionale dei sindacati liberi (Cisl), su 2 milioni di persone che in Thailandia hanno perso il posto di lavoro in conseguenza della crisi asiatica del 1998, l'80% erano donne.

Il rapporto provvisorio delle Nazioni unite lascia intravvedere inoltre che le pratiche legate alla globalizzazione hanno fatto leva su un'ideologia patriarcale preesistente, integrandola o rafforzandola.

Si sono moltiplicati ad esempio i lavori a tempo parziale, le forme di lavoro più precarie e gli «sweat shops», che sfruttano soprattutto le donne dei paesi del Sud e le immigrate.

In altri termini, la globalizzazione ha saputo incorporare e mettere a frutto una divisione del lavoro e un sistema di valori fondati in buona misura sulla sottovalutazione delle mansioni svolte dalle donne.

Nei rapporti nazionali come nel rapporto di sintesi, la mancata realizzazione del programma d'azione di Pechino viene imputata, più che alla mancanza di volontà politica dei governi, alla loro incapacità, che risulterebbe appunto dal processo di mondializzazione.

Certo, non si può ignorare l'influenza del contesto socio-economico globale, che spesso sfugge al controllo degli stati sui quali incombe la responsabilità dell'applicazione dei diritti umani in generale e di quelli economici e sociali in particolare (11).

D'altra parte, però, va sottolineato che l'inadempienza dei governi in questo campo non è un fatto nuovo: per troppo tempo questi problemi sono stati confinati agli ultimi posti da fattori politici, e in particolare dalla guerra fredda e dalla polarizzazione ideologica.

Il rischio è quello di una smobilitazione nella rivendicazione del rispetto dei diritti umani, e in particolare di quelli delle donne, in attesa che il processo di globalizzazione finisca per esaurirsi o per autodistruggersi. La storia dell'umanità prova che, ai fini del rispetto di questi diritti, non esistono circostanze economiche e politiche ottimali.

Sono possibili fin d'ora varie iniziative, che potrebbero articolarsi intorno a due poli: la riaffermazione degli obblighi internazionali degli stati e del loro ruolo politico, e l'elaborazione dettagliata degli obblighi internazionali delle grandi società e delle istituzioni finanziarie internazionali in materia di diritti umani. In questi ultimi tempi, questo secondo polo è oggetto di un'attenzione crescente: si tratta di ottenere, tanto sul piano giuridico (nazionale e internazionale, civile e penale) quanto nei fatti, che alle multinazionali e alle istituzioni finanziarie vengano imposti determinati obblighi, e segnatamente quello di rispondere delle violazioni commesse in relazione alle loro attività economiche e finanziarie (12).

In particolare, esse devono assicurarsi che le misure politiche o le attività cui danno luogo non comportino (direttamente o indirettamente) violazioni di diritti umani. D'altra parte, contrariamente alle tesi oggi predominanti sul piano internazionale, l'azione politica dei governi va difesa.

Il fenomeno della globalizzazione può spiegare taluni sviluppi della situazione delle donne nel mondo, in particolare nei paesi più poveri, ma non basta a dar conto di tutto, e sicuramente non giustifica l'abdicazione politica di vari governi, in particolare nel campo della lotta contro le discriminazioni.

Così come non spiega, ad esempio, la mancata ratifica universale della Convenzione contro ogni forma di discriminazione nei riguardi delle donne e del suo protocollo aggiuntivo, che riserva alle organizzazioni non governative e alle stesse donne la possibilità di sporgere denuncia contro uno stato in caso di violazione degli obblighi definiti dalla Convenzione stessa (13).

Né spiega perché solo alcuni stati abbiano legiferato contro le misure e le pratiche discriminatorie per quanto riguarda il diritto delle donne alla proprietà, al credito e all'accesso alla terra; o perché il divario tra la remunerazione oraria di una lavoratrice e quella di un lavoratore, che in Scandinavia è del 17%, diventa addirittura il doppio in Gran Bretagna (14).

Da un'analisi delle relazioni presentate nel quadro della Conferenza per il bilancio del programma di Pechino risulta che un margine di manovra politico esiste, anche nei settori soggetti alle influenze esterne, quali il mercato e la tutela del lavoro: l'azione politica potrebbe disporre di spazi, e gli stati possono scegliere di utilizzarli o meno. In molti casi - e segnatamente in relazione al problema della violenza contro le donne - gli stati hanno semplicemente abdicato, rinunciando ad assumersi le proprie responsabilità.

Silenzio sulla violenza alle donne Il diritto delle donne alla vita e all'integrità fisica è stato sacrificato in nome dei temi «importanti», che preoccupano i governi.

A nessun'altra violazione o ingiustizia fa riscontro un tale vuoto di attenzione e d'azione. Un silenzio assordante circonda la paura e il dolore delle donne e delle bambine violentate.

Amnesty International documenta quotidiaidnte questo genere di violenze, sia contro le donne in stato di detenzione o durante i conflitti armati che nell'ambito della tratta degli esseri umani o in seno alle stesse famiglie e comunità.

In questi ultimi cinque anni si sono registrati, è vero, alcuni «progressi».

Vari codici penali sono stati riformati nel senso di una più dura repressione delle violenze commesse da familiari, dello sfruttamento della prostituzione e della tratta delle donne.

Sono state lanciate campagne di sensibilizzazione internazionali e nazionali contro le mutilazioni dei genitali (15), e un'evoluzione si registra anche sul piano legislativo e nella giurisprudenza in materia di diritti umani (16).

Negli atti d'accusa formulati dal Tribunale penale internazionale nell'ambito dei procedimenti relativi all'ex Jugoslavia e al Ruanda, lo stupro è equiparato alla tortura, e definito come elemento costitutivo di una politica genocida. Grazie al tenace impegno del Gender Caucus (17), lo statuto del Tribunale penale internazionale, adottato a Roma nel luglio 1998, include le violenze sessuali e lo stupro nella definizione dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità.

Ma questi sviluppi, per quanto necessari e positivi, non rappresentano una risposta sufficiente a una serie di problemi cruciali che si pongono su scala planetaria: l'uso della violenza sessuale come arma da guerra, le brutalità quotidiane contro le donne, l'impunità dei colpevoli.

Colpisce in particolare l'assenza di una campagna di sensibilizzazione sulla violenza coniugale. Nel Vecchio Continente, la richiesta del parlamento europeo di proclamare un «Anno europeo contro la violenza verso le donne» non è stata accolta.

Una campagna lanciata per sensibilizzare l'opinione pubblica sul problema della violenza tra le mura domestiche ha avuto un impatto deludente. (18).

D'altra parte - tranne qualche rara eccezione - la comunità internazionale continua a rifiutare di riconoscere la specificità delle persecuzioni nei confronti delle donne come base legittima per la determinazione dello status di rifugiate (19).

In molti casi, il persistere di queste forme di barbarie va di pari passo (e può essere spiegato) con una sorta di fatalismo o di tolleranza.

Così come la divisione del lavoro tra i sessi è percepita come «naturale», si tende a ritenere che le violenze specifiche del rapporto tra i sessi costituiscano uno stato di fatto immutabile e refrattario a qualsiasi cambiamento profondo, estraneo alla responsabilità internazionale degli stati.

Le organizzazioni convocate a New York lanceranno quindi un messaggio molto chiaro: le violenze contro le donne, sia in condizioni di detenzione che nelle rispettive comunità o famiglie, costituiscono violazioni dei diritti umani e impegnano la responsabilità dei governi.

Gli obblighi internazionali degli stati si fondano tra l'altro sul riconoscimento della possibilità che essi siano chiamati a rispondere degli abusi commessi nella sfera privata.

Il diritto internazionale ha fatto i suoi primi passi nel campo dei diritti umani nel XIX secolo, con una serie di trattati contro la tratta degli schiavi.

Erano testi che riguardavano i «privati», in ordine ad alcuni comportamenti, quali la partecipazione alla tratta degli schiavi e il loro possesso, che gli stati si impegnavano a vietare (20).

Oltre all'obbligo di rispettare i diritti delle donne, gli stati sono anche tenuti a tutelarle e ad assicurare che ogni cittadina possa beneficiare dei propri diritti. Ciò presuppone vari tipi di interventi: ad esempio, prevenire gli abusi, proteggere e sostenere le vittime (sul piano legale, morale, sanitario e finanziario, a seconda delle necessità, con la possibilità di una tutela ravvicinata nei casi più estremi); indagare sistematicamente sui casi di violenza, perseguire gli indiziati, giudicare e punire i responsabili, erogare alle vittime indennità finanziarie garantendo loro l'accesso alle cure e ai servizi che il caso richiede.

Queste ad altre misure comportano il coinvolgimento di numerose istituzioni (polizia, giustizia, sanità, istruzione) e quello dei media. Si impone inoltre - considerando che ad esempio in talune regioni francesi ad alto tasso di urbanizzazione le violenze coniugali rappresentano più di metà delle chiamate d'emergenza (21) - una riforma del codice penale e l'inserimento di nozioni specifiche sulla violenza sessuale e sessista nella formazione del personale giudiziario e delle forze di polizia.

Se il bilancio non può che dare atto della mancata attuazione del programma d'azione di Pechino, l'unico punto positivo sarà forse l'occasione offerta da questa Conferenza per ribadire con forza che nulla può giustificare la persistenza delle discriminazioni e della brutalità contro le donne.

Non è più possibile tollerare che gli stati si sottraggano alle loro responsabilità.

Per contrastare il sistema di oppressione, di discriminazione e di persecuzione fondato sul sesso sarà necessario spendere qualche soldo. Ma ciò che occorre è soprattutto la volontà di impegnarsi in quest'azione: una volontà che a quanto pare è anche più difficile da reperire dei mezzi economici.

Dopo vari decenni di ricerche in questo campo, i governi non possono limitarsi alle solite giustificazioni: «Se le donne sono assenti dalle sedi parlamentari, dalle riunioni interministeriali, dalle trattative di pace, dalle tavole rotonde per la ricostruzione, è perché sono assorbite dai loro impegni familiari e domestici ...» Dov'erano questi governanti negli ultimi cinquant'anni, se scoprono solo ora che le funzioni riproduttive delle donne vanno tenute in debita considerazione, e sembrano porsi per la prima volta il problema delle cause «profonde» delle violenze contro le donne? Dovremo ripetere fino alla noia per tutto il XXI secolo ciò che i nostri «antenati» del XX (e tanti altri anche in epoche precedenti) avevano ampiamente dimostrato?

* Dirige il gabinetto del segretario generale di Amnesty International

 

  • La povertà, l'istruzione e la formazione, la violenza contro le donne, i conflitti armati, l'economia, le strutture di potere e i processi decisionali, i meccanismi istituzionali preposti alla promozione della donna, i diritti fondamentali, i media, l'ambiente e le bambine.^
  • Proposed Outcomes document, E/CN.6/2000/PC/L, testo sottoposto dal presidente del Comitato preparatorio della Commissione sulla condizione delle donne, marzo 2000. La versione discussa in quest'articolo non è quella finale, che sarà adottata in occasione dell'incontro di New York.^
  • Per una panoramica di una serie di riforme rilevate negli ultimi dodici mesi, si vedano le schede redatte da Equality Now, Words and Deeds: Holding Governments Accountable in the Beijing + 5 Review Process, New York, luglio 1999, novembre 1999, marzo 2000.^
  • Pierre Sané, «Gli inseparabili diritti umani» Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 1998. Leggere inoltre &laqulio;Femmes, le mauvais genre?», Manière de voir, bimestrale edito da Le Monde diplomatique, n° 44, aprile- maggio 1999.^
  • Jürgen Habermas, Between Facts and Norms, Polity Press, Cambridge, 1996, p. 420.^
  • Anne Phillips, Which Equalities Matter? (Cambridge: Polity Press, 1999).
    Si tratta di un fenomeno che l'autrice giudica necessario, ma a suo parere oggi si dovrebbe rettificare il tiro per non cadere nell'esclusione quasi totale di ogni considerazione sull'uguaglianza economica.^
  • Inter-Parliamentarian Union, Women in Parliament, New York, 15 aprile 2000, sito Internet: www.ipu.org ^
  • Lobby europea delle donne (Lef), Les femmes et la prise de décision, Bruxelles, sito Internet: www.womenlobby.org ^
  • Proposed Outcome Document, «New challenges and trends affecting the full implementation of the Beijing Declaration and Platform for Action», paragrafo 3 (traduzione dell'autrice).^
  • Proposed Outcome Document, «Achievements and obstacles in implementation of the 12 critical areas of the PFA», paragrafi da 5 a 22. ^
  • Nicolas Jacobs, «La portée juridique des droits économiques, sociaux et culturels», in Revue Belge de Droit International, 1999-1, Bruxelles. Secondo l'autore, se i diritti economici e sociali continuano a essere pressoché ignorati ciò è dovuto innanzitutto alle difficoltà di determinarne la portata giuridica.^
  • Si veda, ad esempio, Liability of Multinational Corporations under International Law, sotto la direzione di Menno Kamminga e Saman Zia-Zarifi, Erasmus University, Rotterdam, in via di pubblicazione.
    Sito Internet: www.multinationals.law.eur.nl ^
  • La convenzione è stata ratificata da 165 dei 188 stati membri delle Nazioni unite, ma in molti casi con riserve che sminuiscono l'impatto della ratifica. Per il momento, il protocollo aggiuntivo adottato nel 1999 è stato firmato solo da 28 stati. ^
  • LEF, Les femmes et l'économie, rapporto alternativo, 2000, sito Internet: www.womenlobby.org ^
  • Vedere, in particolare, le campagne condotte dall'Organizzazione mondiale per la sanità dal 1997 in poi. Oms, UN Agencies call for end to female genital mutilation, 9 aprile 1997.^
  • Agnès Callamard, Méthodologie de recherche sexospécifique, Amnesty International e Centre international des droits de la personne et du développement démocratique, Montréal, 1999; Documenter les violations des droits humains par les agents de l'Etat: La violence sexuelle, Amnesty International e Centre international des droits de la personne et du développement démocratique, Montréal, 1999. ^
  • Il Women's Caucus for Gender Justice in the ICC, fondato nel 1997 in occasione di una riunione preparatoria per la creazione del Tribunale penale internazionale, è composto da attiviste impegnate per assicurare l'integrazione del problemi specifici delle donne e del sessismo nei negoziati relativi al CCI. Vedere il sito Internet: htp://www.iccwomen.org. ^
  • Lobby europea delle donne, Unveiling the hidden data on domestic violence in the European Union, LEF, Bruxelles, 2000; LEF, La Violence à l'égard des femmes, rapporto alternativo europeo, 2000. ^
  • Agnès Callamard, «Refugee Camps, Power and Security: A Gendered and Political Analysis», in Refugees: Perspectives on the Experience of Forced Migration, Alastair Ager (a cura di), Cassel, Londra, 1999.^
  • Stephanie Farrior «State Responsability for Human Rights Rights Abuses By Non-State Actors» in Proceedings of the 92nd Annual Meeting. ^
    American Society of International Law, Washington DC: April 1-4, 1998, pp.299-303.
  • Republique Française, Rapport sur la mise en oeuvre par la France des recommandations du programme d'action de la quatrième conférence mondiale sur les femmes, ottobre 1999.^

 

(Traduzione di P.M.)