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L'impatto della flessibilità sui percorsi di carriera delle donne

Nel rapporto fra le donne e la flessibilità nel lavoro c'è una soglia oltre la quale non è più vantaggioso nè per l'offerta, nè per la domanda di lavoro farvi ricorso, trattandosi di una relazione i cui costi sono cresciuti per entrambi. Chi si è illuso che la flessibilità potesse essere un meccanismo di regolazione costante dei divari nel mercato del lavoro in generale e, in particolare quello femminile, trova nei risultati dell'indagine condotta una chiara smentita.

Per ciò che riguarda gli atteggiamenti delle donne bisogna dire che esse vedono la flessibilità ancora con sospetto, nonostante molte occupate sono tali proprio grazie al ricorso a questo tipo di strumenti.

La verità è che la ricerca della sicurezza che offre un posto a tempo indeterminato esercita ancora un grande richiamo, mentre la flessibilità si accompagna alla consapevolezza che per il momento non esiste nel sistema produttivo italiano la capacità di organizzarla in funzione della forza di lavoro, nonostante le donne ne rappresentino il maggiore potenziale.

Sul piano più generale, infatti, emergono alcune considerazioni: i problemi del difficile rapporto fra le donne e il lavoro si collocano a monte delle modalità con cui si impiegano, in particolare nella propensione all'attività molto contenuta, soprattutto se si tratta di occupazioni in qualche modo formalizzate e nella possibilità del sistema economico di creare occasioni di impiego;

gli strumenti di flessibilizzazione del rapporto di lavoro da soli non riescono a risolvere le contraddizioni che lo contraddistinguono, ma semmai servono a garantire l'accesso al mercato di una parte delle donne;

certamente, se il volume di partecipazione al lavoro delle donne aumentasse, questo avrebbe indiscussi effetti positivi anche sul lavoro flessibile, poichè indurrebbe una diversa organizzazione del lavoro, in cui la flessibilità potrebbe diventare un'altra tipologia di permanenza sul mercato e non, come ora, una condizione residuale.

Nella situazione attuale, si può dire che gli strumenti di flessibilità non hanno correlazioni forti con le carriere delle donne, sia che si tratti di persone avviati a percorsi di crescita, per capirci, di tipo gerarchico, sia che si tratti di persone con una professionalità specifica destinata a crescere orizzontalmente.

Ciò che, invece, costituisce un elemento essenziale nei livelli di gradimento e di integrazione delle donne con l'offerta di flessibilità e, conseguentemente, con le prospettive di carriera a questa collegate sono i contenuti del lavoro, le mansioni -si sarebbe detto un tempo in cui erano oggetto di rivendicazione collettiva- che le donne sono realmente chiamate a svolgere: quanto più si tratta di occupazioni interessanti, tanto più le donne sono portate ad accettare le regole, anche dure, della flessibilizzazione dei tempi e della disponibilità fisica.

Quanto più alla flessibilità si collegano attività poco stimolanti, tanto più queste modalità di impiego vengono vissute come strumento di permanenza nel mercato, ma non come strumento di promozione.

Generalmente, si ha la sensazione che la flessibilità non offra alle donne se non la possibilità di ingresso nel mercato del lavoro, il che potrebbe costituire un elemento importante in una situazione generale in cui il tasso di disoccupazione femminile è ancora al 29,8% e dal 1994 al 1999 ha subito un incremento dell'1,6%,.

Ma ciò che oggi veramente manca della flessibilità è la capacità di promuovere chi la "usa" verso i lavori diversi e destinazioni occupazionali più stabili.

Il mercato del lavoro femminile si propone come un continuum ai cui poli si collocano il lavoro atipico e quello indipendente e nel cui intervallo si osservano, comunque, sensibili differenze interne:

le donne che svolgono un lavoro dipendente a tempo indeterminato sono il 62% del totale e continuano ad adottare i tradizionali parametri di orario del modello fordista (40 ore settimanali per 5 giorni), senza contare la base di sicurezza economica su cui possono contare;

le donne indipendenti sono il 14,9 % delle occupate, lavorano più di tutte le altre, oltre 40 ore settimanali, ma guadagnano molto di più, mediamente oltre due milioni al mese;

le donne dipendenti a tempo determinato (l'11,3% in tutto), sono soprattutto le occupate a tempo parziale e con contratti di formazione e lavoro e rappresentano un aggregato di persone di buona qualificazione, che sperimenta anche combinazioni diverse di formule lavorative, fino ad arrivare a un tempo cortissimo limitato solo ad alcune volte nel corso della settimana (contratto nicchia);

le donne atipiche, pari al 6,3% del totale, soffrono per una sostanziale precarizzazione del loro impiego, segnalata dal livello molto basso del tempo lavorato (meno di 20 ore settimanali) dal basso livello di qualificazione e dal livello retributivo più basso fra quelli rilevati;

le donne irregolari (il 5,9%) svolgono soprattutto lavoro dipendente hanno lo stesso monte ore di quelle atipiche, la stessa bassa qualificazione, ma guadagnano relativamente di più.

Da questa classificazione, seppure molto schematica, emerge che le donne occupate con modalità atipiche sono in una condizione abbastanza critica, visto che:

  • hanno livelli di formazione in partenza bassi, anzi il 35,7 % è in possesso della sola licenza elementare;
  • svolgono attività piuttosto dequalificate, collegate a prestazioni che non richiedono particolari skills;
  • il 67,6% guadagnano meno di un milione di lire al mese e il 27,1% tra uno e due milioni;
  • il 54,4% beneficia della massima flessibilità nei tempi di lavoro, prevalentemente scelti dal datore di lavoro;
  • risiedono in prevalenza nelle regioni del sud e del centro.

Le donne indipendenti, in maggior parte artigiane e commercianti, per parte loro, si presentano come le più favorite sotto il profilo della crescita professionale, non tanto per la qualificazione di base (il 37,7% ha conseguito la licenza elementare o media a fronte, comunque di un 20,9% di laureate), ma grazie alla loro posizione di imprenditrici che consente loro di maturare, lavorando, esperienze e competenze. La flessibilità, dunque, sembra penalizzare la qualità dell'offerta, o meglio, sembra coinvolgere risorse che partono generalmente da livelli di carriera bassi o nulli, accompagnati da corredi formativi altrettanto ridotti.

Questo giudizio di criticità è ulteriormente spiegato dall'analisi dei percorsi di carriera indotti da condizioni di impiego atipiche. Le donne non scelgono la flessibilità poichè fra i "vecchi" lavori standard e i "nuovi" lavori atipici c'è pochissima comunicazione e chi entra nel mercato con formule flessibili ha buone possibilità di rimanere tale molto a lungo.

Negli ultimi tre anni, la ricerca segnala l'assenza pressochè totale di mobilità fra le donne occupate: chi aveva un contratto a tempo indeterminato nel 91,6% dei casi lo ha ancora; chi lavorava con un contratto atipici nel 90% dei casi è ancora occupata con la stessa modalità; chi era irregolare nel 71% dei casi si conferma tale e nell'11%, invece, è passata a svolgere lavoro autonomo e circa il 17% è riuscita ad avere un contratto di lavoro dipendente regolare.

Come dire che è più facile passare da una situazione opaca di lavoro a una regolare che trasferirsi dal lavoro atipico a quello standard. Senza contare che, alla luce dei dati citati, il lavoro irregolare sembra consentire maggiori margini di crescita professionale del lavoro atipico.

Queste osservazioni sviluppate sul rapporto fra mobilità e flessibilità sono ancora più dense di manipolazioni se si pensa che le donne occupate nel 96,7% dei casi svolgono una sola attività: la monoappartenenza lavorativa rappresenta per le donne un vincolo in più poichè, se non si trovano pienamente soddisfatte della loro attività principale, non ne hanno un'altra che possa compensare i loro eventuali vuoti di realizzazione.

A fronte della maggior parte delle donne occupate che si dichiara soddisfatta della propria condizione professionale non solo le più insoddisfatte sono proprio le atipiche, ma fra loro si sviluppa anche un forte senso di precarietà, non condiviso da chi ha rapporti di lavoro più tradizionali o indipendenti.

In realtà, le donne che lavorano si possono facilmente descrivere come un'offerta alquanto rigida: per aver un lavoro maggiormente gratificante, le donne non sono molto propense ad assumere iniziative personali eccetto cambiare tipo di attività o di azienda, riportando il ragionamento sui contenuti del lavoro cui si collega oggi gran parte del loro destino lavorativo.

Per il resto gli affetti, soprattutto il rapporto di coppia e il tempo libero, sono ormai rivalutati come valori soglia che le donne non sono disposte a scambiare con niente altro.

Fra gli atteggiamenti rilevati in proposito, si segnala tuttavia un 15,8% di donne, soprattutto atipiche e con reddito basso, prevalentemente giovani, che per un lavoro soddisfacente sarebbero disposte a rinunciare ai figli o lo hanno già fatto.

E' un dato che riguarda certamente una minoranza di persone, ma è troppo denso, in prospettiva, di implicazioni sociali per non dover essere segnalato, e per non costruire un sistema di allarmi che ne possano controllare le possibili evoluzioni.

Le donne, in definitiva, hanno sperimentato prima di altri l'applicazione della flessibilità al lavoro e hanno sviluppato nei suoi confronti una percezione molto strumentale: sanno che aiuta ad entrare nel mercato delle opportunità, ma che è difficile uscirne, per cui finiscono con il preferire occupazioni più tradizionali e soprattutto stabili.

Della flessibilità apprezzano i gradi di libertà che può offrire in termini di tempo, ma per la maggior parte di loro il lavoro non tradizionale non si collega nè con più autonomia, nè con percorsi consistenti.

Non è un caso se fra le politiche che le donna pensano utili per chi come loro lavora, al primo posto si colloca la richiesta di una maggiore flessibilità negli orari distribuita non necessariamente nel corso della giornata, seguita dall'organizzazione di maggiori supporto per il lavoro di cura.

Pensando ai risultati complessivi di questo lavoro gli interventi che sembrano importanti per trasformare il rapporto un po' alla deriva che oggi lega le donne alla flessibilità tornano utili le esperienze dei partners europei che hanno collaborato al progetto, le cui realtà sembrano segnalare due vie di uscita abbastanza alternative.

In Germania e in Austria la flessibilità non coincide con situazioni di precarietà, poichè a tutte le forme di lavoro non standard corrisponde una tutela pari a quella destinata ai lavori tradizionali, così come è accaduto e accade al nostro part-time, che ormai ha perso il suo carattere di atipicità, ma insieme a questo anche il richiamo per la domanda di lavoro.

Si potrebbe dire che nei due paesi citati la flessibilità diventa rigidissima, senza lasciare margini di intervento al di fuori della norma. In Spagna, invece, la politica di sostegno alla flessibilità è stata perseguita con appositi strumenti di incentivazione che oggi hanno portato circa il 25% delle spagnole ad essere ciò che sono nel nostro paese si definisce lavoratrici atipiche, senza cioè tutte quelle forme di sicurezza previste invece, per altre forme di impiego.

Non è detto che l'Italia debba rappresentare sempre una terza via rispetto a modelli di gestione socio-economici già consolidati, ma certamente quello che manca oggi al nostro mercato del lavoro e a quella sua parte occupata dalle donne è lo sviluppo di alcune funzioni di supporto alla flessibilità che potrebbero renderla più accessibile alle imprese e meno escludente per le lavoratrici.

La prima funzione è quella formativa. Non si allude (solo) alla necessità che l'investimento in formazione diventi una priorità nazionale e porti alla definizione di sistemi complessi di educazione permanente. Sarebbe forse più utile destrutturate i grandi progetti sulla formazione continua per distribuirli sul piano micro, dove per le donne sia più facile e comodo usufruirne.

Le strutture a cui demandare questo compito di socializzazione di base alla formazione, sia teorica, sia di diretta applicazione sul lavoro esistono nelle tante articolazioni di sostegno allo sviluppo sorte sul territorio. L'importante è che si facciano carico di investire sull'orientamento del mercato -domanda e offerta- verso la flessibilità, avvicinandone gli obiettivi e, per quanto ciò sia possibile le attese.

Un'altra funzione è quella del controllo, che va fatta crescere per evitare che nel sistema produttivo la flessibilità significhi solo assenze di regole, non solo scritte, ma anche formali, e che induca l'assenza di responsabilità sia presso le imprese, sia presso le lavoratrici.

Sotto questo profilo le consigliere di parità, il cui ruolo è stato ridefinito con modifiche apportate nei mesi estivi alla L. 125, potrebbero assumersi l'onere di attivare questa funzione, cercando di sfuggire dalle trappole delle rivendicazioni e proponendosi in chiave di tutors della flessibilità nei rapporti fra datore di lavoro e dipendente.

La terza funzione attiene alla definizione di strumenti di incentivazione specifici per le aziende che adottino centri di valorizzazione delle risorse femminili, soprattutto se interessate da forme di lavoro flessibile.

Anche questa sarebbe una misura che colpirebbe nella dimensione micro, ma è proprio lì e non prima dell'accesso all'impiego che, come dimostrato anche dagli studi di caso di questo progetto, cominciano a svilupparsi le premesse dei persosi di carriera delle donne.

Così come è solo lì che le donne possono trovare risposte adeguate alla loro domanda inevasa per un nuovo modo di lavorare, che forse non si potrà chiamare con la parola "flessibilità", ma che potrebbe assommare in sè il piacere del lavoro, lo sviluppo delle competenze e la consapevolezza del proprio ruolo.

Le donne devono probabilmente sviluppare una maggiore adesione interiore per modelli di vita in cui lavoro e vita privata possono incontrarsi, poichè spesso sono loro stesse a sottrarsi a soluzioni di conciliazione. Tuttavia, è dal sistema sociale e da quello delle imprese che deve partire la spinta iniziale a ripensare la collocazione delle donne nella produzione, riconoscendo loro il peso che possono avere nello sviluppo e il valore aggiunto che possono offrigli.